martedì 24 giugno 2008

Continuavano a chiamarlo Impunità

Qualche anno fa uscì un libro dal titolo emblematico: "lo chiamavano Impunità". Oltre all'ovvio riferimento al celebre spaghetti western "lo chiamavano Trinità", con Bud Spencer e Terence Hill, il libro evidenziava come le vicende giudiziare del quattro volte premier assomigliavano ad un Far West all'italiana. In qualsiasi altro paese "democratico" del Mondo, un personaggio come Berlusconi non potrebbe PER LEGGE far politica. Nella nostra italietta del c..zo, invece, tutto è consentito a chi ha i miliardi. Anche l'impunità, cioè la possibilità di non farsi processare. Alla peggio, di essere condannato in qualche grado di giudizio ma poi vedere il proprio reato prescritto per qualche legge approvata ad hoc da un parlamento di servi e lacchè. Il Caimano Silvio, oggi, ha ottenuto l'ennesima impunità: all'interno del decreto sulla sicurezza e immigrazione, il non mio premier ha inserito, e fatto approvare, una norma che sospende i processi per reati commessi prima del 2002. Guarda caso, proprio un processo in cui Berlusconi è accusato di corruzione (il Caso Mills) ha i requisiti per la sospensione. E come se non bastasse, il famigerato Lodo Schifani (immunità per le più alte cariche dello stato) sarà approvato tra poche settimane, e consentirà al Beslusca di non farsi processare fino a quando resterà al potere.
Faccio quindi un esempio: se berlusconi, tra cinque anni, venisse eletto Presidente della Repubblica (7 anni di mandato), le sue pendenze penali subirebbero uno stop di 12 anni, con la probabilità che molti reati attualmente perseguibili saranno tra 12 anni prescritti.
Se in Italia esistesse una vera Destra, legalitaria e giustizialista, o una vera Sinistra, vaccinata dal veltronismo, forse Berlusconi sarebbe stato processato.
"Anche se voi vi sentite assolti, siete lo stesso coinvolti" De Andrè

lunedì 16 giugno 2008

Sull'Esercito nelle strade.

2.500 militari impiegati in supporto alle forze dell'ordine. 6 mesi prorogabili solo una volta. Questa la proposta del Governo Berlusconi, per bocca del Ministro della Difesa La Russa, sulla cosiddetta "emergenza sicurezza".
Lo dico subito: per me è uno spot elettorale. Un modo per far vedere che con la destra al potere c'è maggior presenza dello Stato nel territorio, e pertanto maggior sicurezza percepita. Se si riuscisse davvero, in sei mesi o in un anno, a rendere più sicure le nostre città... io sarei addirittura a favore della militarizzazione dei nostri territori. Ma siccome sono di Napoli, e so bene che il problema criminalità a ragioni ataviche, addirittura pre-unitarie, so altrettanto bene che in un anno non si può fare nulla, se non diminuire le libertà dei cittadini, dare l'idea di un paese sull'orlo di una invasione o di una guerra civile, farci sentire cittadini di regimi sudamericani. Abbiamo già avuto (Genova 2001) la polizia cilena, ci stiamo avviando verso nuove leggi speciali???

sabato 14 giugno 2008

Irish said no!


L'Irlanda ha detto no. E vaffanculo ai burocrati europei, ai liberisti e ai financial men del vecchio continente. Vaffanculo ad una costituzione europea stomachevole nei contenuti e nelle forme, ispirata da Maastricht e senza anima. Stanno facendo l'Europa a tavolino, inventando nazioni (Kosovo) distruggendone altre (Jugoslavia) e fingendo di rendere europei anche chi europeo non è (Israele).

Il Trattato di Lisbona, questa indegna cartaccia a cui si è cercato invano di dare la dignità di Costituzione, è stato finalmente bocciato. Nonostante molti parlamenti (tra cui quello italiano) abbiano ratificato il trattato SENZA consultare democraticamente i rispettivi cittadini. In Irlanda, invece, la costituzione prevedeva che per cose di questo genero fosse OBBLIGATORIO indire un referendum, al fine di approvare o respingere la carta costituzionale europea. I fratelli irlandesi hanno votato convintamente NO, e siccome le regole comunitarie prevedono che la costituzione deve essere ratificata da tutti gli stati membri, il processo di Lisbona è stato arrestato. Momentaneamente? Certo che si, visto che i poteri forti sono già al lavoro per togliere questo fastidioso ostacolo democratico dalla strada dell'Europa. Il nostro Presidente, Giorgio Napolitano, ha detto che "chi intralcia l'Europa, vada fuori": in pratica, se non sei d'accordo con me, vai a fare in culo.

Questa è la democrazia su cui l'Italia e l'Europa sono fondate.

lunedì 9 giugno 2008

Io non mi sento italiano...

... ma per fortuna o purtroppo lo sono. Così cantava Giorgio Gaber.
Oggi inizia l'Europeo dell'Italia. Ed io, come un semplice tifoso, seguirò con attenzione le partite della Nazionale sperando in una vittoria. Lo farò con semplicità e senza particolare partecipazione, perchè io non mi sento italiano (anche se in effetti lo sono). Non mi sento italiano perchè l'Italia non mi piace e non voglio appartenerci. Sono nato qui, su questa terra, per puro caso. E non mi eccitano assolutamente parole quali Patria, Nazione, Popolo Italiano. Sotto la bandiera tricolore sono uniti popoli tra loro troppo diversi per tradizione, cultura, struttura socioeconomica, storia politica. Napoletani e Veronesi (in quanto tali, presi nella loro genericità) non potranno mai essere membri di una stessa nazione. L'operaio italiano è molto più "fratello" dell'operaio tedesco piuttosto che dell'imprenditore italiano. Le Nazioni, e peggio ancora gli Stati (da cui derivano le Nazioni), non sono altro che mercati che si sono dati delle regole, cancellando le identità culturali di un determinato comune o paesino o città.
Su cosa è unita l'Italia? Su cosa sono uniti gli italiani? Basta vedere il razzismo del Nord nei confronti del Sud, le case degli anni 50 fittate a tutti (tranne che ai meridionali), ed in ultimo la sordità del resto d'Italia nei confronti dell'emergenza rifiuti in Campania. Ed io? Dovrei sentirmi italiano? Stasera dovrei alzarmi in piedi e cantare l'Inno nazionale, che parla di unità e fratellanza di cui ormai non c'è traccia?
La Lega si permette di dire che se non gli diamo il federalismo fiscale, loro sono pronti ad armarsi per l'indipendenza! Il nostro Presidente della Repubblica che fa, che dice? N-i-e-n-t-e. Ed io dovrei far parte del medesimo popolo di quelli lì? Napolitano, ma mi faccia il piacere...
Forza ragazzi, vincete l'europeo. Ma se non vincete, dormirò benissimo lo stesso.

domenica 8 giugno 2008

Nè martire, nè eroe: Uomo.

A me i carabinieri non stanno simpatici. Così come i poliziotti, i finanzieri e compagnia cantante. Loro sono difensori dello status quo, gente che difende ciò che io voglio distruggere. Servitori di uno Stato che non merita niente. Pedine di un gioco troppo più grande di loro. Esseri esaltati dal "senso del dovere" e dalla "fedeltà alle istituzioni", le stesse istituzioni che imbrigliano i cittadini rendendoli sudditi.
A me i carabinieri non stanno simpatici, anche se so che sono persone come tutti, con le loro debolezze e le loro forze. Sono lavoratori. A loro va riconosciuto, sempre e comunque, l'onore delle armi. Ieri si sono svolti, a Pagani, i funerali di Marco Pittoni (32 anni), sottotenente dei carabinieri. Stava in fila all'ufficio postale, quando tre disgraziati hanno iniziato una rapina. Il sottotenente è intervenuto, riuscendo a sventare la rapina, ma è stato colpito alla gola da un proiettile esploso dai rapinatori. Dopo qualche ora di agonia, si è spento.
Per tutti, Marco Pittoni è un eroe. Con sprezzo del pericolo è intervenuto, pagando con la vita.
Per altri, i più retorici, è morto da carabiniere, intervenendo per sventare una rapina.
Per qualcuno, i più codardi, Pittoni si doveva fare i fatti suoi, e girarsi dall'altra parte.
Secondo me, Marco Pittoni non è un eroe, nè un martire, nè un esaltato. E' semplicemente - merce rara di questi tempi - una persona che non ha abbassato lo sguardo. Non si è girato dall'altra parte.
Marco Pittoni, uno che non si è girato dall'altra parte.

mercoledì 4 giugno 2008

Morti "straordinarie".

di MISAKO HIDA*
Repubblica ha pubblicato l'articolo che ha vinto il premio giornalistico "Media for Labour Rights", indetto dall'ILO, l'agenzia dell'Onu per i diritti del Lavoro. "Tutto il tempo che ho passato è stato sprecato". In una giornata di marzo del 1999, ancora prima che i germogli di ciliegio cominciassero a sbocciare, un ragazzo di 23 anni, Yuji Uendan, in preda a una forte depressione causata dall'eccesso di lavoro, si è tolto la vita. È stato trovato nel suo appartamento di Kumagaya, alla periferia di Tokyo, con quelle parole scribacchiate su una lavagnetta bianca che usava per l'elenco degli appuntamenti giornalieri. Uendan aveva lavorato per quasi 16 mesi come ispettore di apparecchiature per la produzione di semiconduttori, in una stanza asettica con una luce soffusa giallastra nella fabbrica della Nikon a Kumagaya, vestito dalla testa ai piedi con una divisa bianca sterile. Era stato assunto dall'appaltatrice Nextar (oggi Atest) che lo mandava per incarichi a termine alla Nikon, una delle principali produttrici giapponesi di macchine fotografiche e dispositivi ottici. Uendan faceva turni di giorno e di notte di 11 ore a rotazione, con straordinari e viaggi extra che gli facevano raggiungere le 250 ore al mese. Nel suo ultimo periodo di lavoro all'interno della fabbrica era arrivato a 15 ore consecutive senza un giorno libero. Soffriva di mal di stomaco, insonnia, intorpidimento delle estremità. In poco tempo era dimagrito di 13 chili. "Aveva la faccia molto tirata" racconta la madre, Noriko Uendan, 59 anni, che ha cominciato a soffrire di angina dalla morte del figlio e ora porta sempre con sé pillole di nitroglicerina. "Mi fa soffrire pensare a quanti giorni è rimasto lì, da solo, prima che lo trovassero".


Nel marzo del 2005, il tribunale distrettuale di Tokyo ha dichiarato che sia la Nextar sia la Nikon erano da ritenersi responsabili per la morte di Uendan e ha ordinato a entrambe le aziende il risarcimento dei danni. "È stata una vittoria senza precedenti per i lavoratori temporanei", ha detto l'avvocato di Uendan, Hiroshi Kawahito, che è anche segretario generale del Consiglio di difesa nazionale per le vittime di "Karoshi". L'espressione giapponese che sta a significare "morto per eccesso di lavoro" ormai è stata adottata anche dalla lingua inglese, basta consultare il dizionario Oxford. "Si è trattato del primo caso in cui non solo l'azienda che forniva personale temporaneo, ma anche quella che lo riceveva, sono state condannate per negligenza" ha aggiunto Kawahito. Ma la causa non è conclusa. Entrambe le aziende sono ricorse in appello, ma la madre della vittima non intende darsi per vinta. La battaglia legale perciò continua alla corte d'appello di Tokyo, dove alla fine di gennaio si è tenuta la dodicesima udienza. "Negli ultimi anni, sempre più lavoratori temporanei sono stati costretti a lavorare tanto quanto i dipendenti a tempo pieno ed è molto comune che le società appaltatrici forniscano illegalmente ai propri clienti dipendenti di fatto come se fossero interinali o temporanei", dice Koji Morioka, professore di economia e autore di The Age of Overwork, L'era del lavoro eccessivo. "Visto lo status quo, il caso di Uendan ha un'importanza particolare perché si è trattato in assoluto della prima richiesta di indennizzo per il suicidio di un lavoratore temporaneo a causa di straordinari ed eccesso di lavoro." La questione del "karojisatsu", letteralmente "suicidio dovuto all'eccesso di lavoro" è un problema serio in Giappone. Il numero di suicidi è aumentato drasticamente, superando i 30 mila casi dal 1998, quando il tasso di disoccupazione raggiunse un record dai tempi del dopoguerra. Secondo gli ultimi dati dell'Organizzazione mondiale della Sanità, il numero di suicidi in Giappone è quasi il doppio di quello negli Stati Uniti. L'ultimo studio dell'agenzia di Polizia nazionale giapponese evidenzia che nel 2006 si sono tolte la vita, in tutto il paese, 32.155 persone. Kawahito stima che più di cinquemila suicidi ogni anno sono il risultato della depressione causata da eccesso di lavoro. Secondo le ultime stime dell'Organizzazione internazionale del Lavoro, ILO, il Giappone detiene il primato di dipendenti che superano le 50 ore a settimana (28,1 per cento), mentre nella maggior parte dei paesi dell'Unione Europea, la cifra non va oltre il 10 percento (in Italia siamo al 4,2 per cento). "L'era del lavoro eccessivo" riporta che la quota di ferie retribuite da parte dei dipendenti giapponesi è scesa al 47 percento nel 2004 dal 61 per cento del 1980. "I troppi straordinari quasi impediscono ai lavoratori di godere di ferie retribuite e questo costituisce un problema" sostiene Kosuke Hori, a capo dell'Associazione giapponese degli avvocati del lavoro. Il Giappone non ha ratificato alcuna Convenzione dell'ILO sull'orario lavorativo, comprese la Convenzione 132 relativa alle ferie retribuite e la Convenzione 1 sulle ore di lavoro. La legge nazionale non mette un tetto al lavoro straordinario per certe professioni e in certe condizioni. "Quando si tratta di ore lavorative - Marioka scrive nel suo libro - in Giappone non c'è alcun riferimento agli standard internazionali". "Ho giurato su mio figlio mentre era in coma che non mi sarei mai arresa - ha detto la madre di Yuji Uendan - e spero davvero che in futuro le aziende giapponesi lascino avere vite dignitose ai propri dipendenti, tanto da arrivare a morire di vecchiaia".
*Misako Hida è una giornalista freelance giapponese che scrive da New York per le riviste The Economist, Sunday Mainichi, Toyo Business e Newsweek Japan. Con l'articolo "The Land of Karoshi" ha vinto il premio giornalistico "Media for Labour Rights" istituito dal Centro internazionale di formazione dell'ILO, che ha sede a Torino. L'ILO è l'agenzia dell'Onu per i diritti del lavoro e il premio, alla sua prima edizione, è legato al progetto di formazione per giornalisti e operatori dei media volto a diffondere la conoscenza degli standard internazionali del lavoro. In questi giorni si tiene a Ginevra la 97° Conferenza Internazionale del Lavoro, appuntamento annuale in cui l'ILO riunisce i rappresentanti dei ministeri del welfare, delle organizzazioni sindacali e delle imprese di tutto il mondo per discutere delle tendenze globali dell'occupazione e promuovere il lavoro dignitoso (Decent work).

lunedì 2 giugno 2008

Der Stirner

Ciò che segue è un pezzo della pagina di Wikipedia dedicata ad uno dei pensatori più originali e ribellisti (non rivoluzionari, si noti bene) della storia: Max Stirner, la cui opera "L'Unico e la sua proprietà" mi affascina ancora oggi. In particolare, in questo passo si parla della concezione politica di Stirner, dell'individualismo e della libertà. Voi che ne pensate di queste idee?
Stirner pone l’individuo al centro del mondo in quanto è già dotato di per sé di una sua assolutezza: anche la libertà deve essere assoluta in sé e per sé, se non lo fosse non sarebbe più libertà, non dobbiamo cercare di limitarla. Va da sé, però, che un siffatto modello di libertà non è praticabile perché la libertà di un individuo non può coincidere con quella di un altro individuo. Sta, comunque, di fatto che la libertà può essere esclusivamente assoluta.
Il problema risiede nel trovare un compromesso tra libertà assoluta (impraticabile) e libertà determinata (che non è autentica libertà). Stirner sceglie la libertà individuale: “si può perdere la libertà, ma la libertà spetta solo a noi”, è una scelta momentanea che si presenta all’individuo in ogni momento della sua vita. L’individuo deve avere la proprietà della libertà, non basta dirsi liberi, io devo poter fare o non fare ciò che desidero; a Stirner non interessa realizzare l’ideale della libertà, quello a cui punta è di avere la libertà, l’uomo diventa libero se riesce a sottoporre la libertà al proprio volere (non basta l’ideale).
La libertà deve liberare l’unicità quale dimensione autentica dell’individuo, la libertà così posta è teoricamente infinita e senza confini, io individuo e solo io posso sottoporla a dei limiti. La libertà così intesa si esplica al di fuori di ogni codificazione; è possibilità di essere, di avere, etc. Per sfruttare la mia libertà posso usare ogni mezzo, addirittura l’ipocrisia e l’inganno. Dal punto di vista delle istituzioni politiche non vi può essere alcun rapporto tra istituzioni e libertà dell’individuo, il diritto, solo per il fatto di esserlo, si pone al di fuori della mia individualità (in quanto è stato elaborato con strumenti che esulano, appunto, dalla mia individualità).
I diritti mi sono stati concessi e non sono atto della mia libertà: basta ciò per considerarli un qualcosa che imbriglia la libertà; non sono io che mi approprio dei diritti, sono un qualcosa che gli altri mi concedono, importa poco se questa concessione avvenga ad opera di pochi, uno o molti. Si tagliano, così, i ponti anche con una concezione politica ultrademocratica: è sempre un qualcosa di collettivo, a Stirner interessa invece l’individualità.
Una parte importante dell'"Unico e le sue proprieta'" dimostra come non esiste una vera e assoluta "libera concorrenza" in presenza di uno Stato. La libera concorrenza significa "egalité" davanti allo stato; e l'uguaglianza di fronte al "fantasma" di uno Stato dissolve quella che è la concezione stirneriana dell'Unico come differenza assoluta, e non differenza "da". Si concorre sempre e solo con la grazia dello Stato. Lo Stato, in altre parole, concede diritti (tra i quali quello di potere essere in concorrenza) solo per formarsi dei "servi".
Stirner cerca di differenziare più volte la rivoluzione con la rivolta; la rivoluzione è del popolo, mentre la rivolta è del singolo. Questo svalutazione del concetto di rivoluzione è in qualche modo pensata anche da Klossowski,filosofo francese. L'Unico di Stirner non è l'ennesimo fantasma della metafisica occidentale: non c'è un'essenza umana,un modello a cui l'uomo singolo, l'Unico si deve adeguare o con il quale deve fare i conti. L'unico si autofonda.
Non si deve lottare,secondo Stirner,per il "diritto" alla liberta'(di stampa,di parola ecc.ecc.). Su questo punto concorda anche Baudrillard in "Lo scambio simbolico e la morte": Baudrillard accenna al carattere mistificatorio di chi si batte per il diritto alla sicurezza. Della sicurezza in sè per se' a nessuno importa. E questo perche' la sicurezza è il prolungamento industriale della morte.