venerdì 29 febbraio 2008

Ecco perchè non voto.

Le elezioni del 13 e del 14 aprile vedranno vari milioni di italiani recarsi alle urne ed esprimere un sostegno a questo o quel partito. Tra quei milioni di italiani, non ci sarò io. Dopo anni in cui non ho mancato ad una qualsiasi elezione o referendum, ho deciso di dire basta. E per la prima volta, come dice Beppe Grillo, "non me ne vergogno". Andare a votare significa legittimare un Sistema che, governi uno o l'altro, antepone sistematicamente gli interessi personali, di classe o di casta, agli interessi generali. Significa legittimare un insieme di "governanti" incapaci di governare, tanto nel merito quanto nei metodi. Significa salire su un treno lanciato a velocità folle verso il baratro della "modernizzazione", dello "sviluppo", della "flessibilità", delle "magnifica sorti e progressive" dell'Italia.
Andare a votare significa LEGITTIMARE. Ed io non voglio dare nessuna patente di legittimità ai dirigenti della Seconda Repubblica, che quasi sempre sono gli ex-portaborse della Prima Repubblica o gente che si è riciclata decine di volte, cambiando partiti o schieramenti politici con la velocità di un ghepardo.
A questa posizione da me - e spero da altri milioni di italiani - assunta, è possibile opporre varie e vacue obiezioni.
La prima: se non vai a votare, non cambia nulla. In realtà, la Seconda Repubblica ha dimostrato esattamente il contrario: se vai a votare, non cambia nulla. Negli ultimi anni, in occasione di una qualsivoglia tornata elettorale, gli italiani si sono recati alle urne in numero considerevole: referendum esclusi, il numero di elettori è oscillato tra il 70 e l'80 % degli aventi diritto. Tra i popoli europei, siamo quelli che maggiormente partecipano alle elezioni. E cosa è cambiato? Nulla. Berlusconi sembrava un rivoluzionario nel 1994, il nuovo che avanza, la novità politica dopo decenni di grigiore democristiano e penatpartitico: dopo 14 anni, possiamo seriamente dire che Berlusconi è stato tra i principali artefici della crisi della Politica. La Seconda Repubblica è stata la prosecuzione, qualitativamente inferiore per uomini e programmi politici, della Prima: Berlusconi è stato il riferimento indiscusso della Seconda Repubblica. E il centrosinistra? Doveva rappresentare il cambiamento: non è mai stato capace di esprimere una continuità politica o programmatica per più di un biennio. Come i governi della Prima Repubblica, alle crisi seguivano altre crisi, ai rimpasti seguivano altri rimpasti...tutti attaccati alla poltrona ed oculati accaparratori di clientele. Chi ha votato nel 1994, ed ha votato per tutti gli anni a seguire, sperava nel cambiamento. Domanda: cosa è cambiato dal 94 ad oggi? NULLA!
La seconda: votare è un conquista che va salvaguardata. Verissimo. Il guaio è che il voto, siccome si basa su un criterio meramente quantitativo, non garantisce la qualità di coloro che sono eletti. Infatti, riempire di voti il Partito delle Libertà o il Partito Democratico (cosa che molto probabilmente avverrà) non impedirà agli stessi partiti di governare male, o peggio ancora in combutta tra loro (inciuci, larghe intese, grosse coalizioni). Anzi, vi sono serie possibilità che il 30-35% del PdL si sommi al 30-35% del PD, e tutti e due procedano a braccetto modificando sostanzialmente la Costituzione e quelle poche garanzie democratiche che ancora sono in piedi. Siccome il voto di chi si interessa e segue conta esattamente quanto il voto di chi se ne strafrega o, peggio ancora, di chi si vende... è probabile che queste due supercloache politiche riceveranno parecchi voti. Io credo che, se gli italiani dovessero sostenere un esame prima di essere autorizzati a recarsi alle urne, il PdL e il PD vedrebbero dimezzato il loro appeal elettorale.
La terza: il voto è il modo più democratico per far sentire la propria voce. Questa è davvero bella! Il modo più democratico? E che significa? E' democratico mettermi davanti una lista di nomi che io non ho scelto? E dirmi di mettere una croce sul simbolo senza poter esprimere una preferenza? E' democratico fare una legge elettorale in base alla quale il voto dato a PdL o PD vale più del voto dato alla Sinistra Arcobaleno, all'UDC o alla Destra? Io direi, invece, che il voto è il modo più pacifico di garantire continuità al Sistema, di fregare i cittadini fingendo di considerarli tali e non sudditi.
La quarta: il voto è un deterrente contro le dittature. Altra colossale fandonia: la dittatura nazista ebbe origine dopo che Hitler fu democraticamente eletto al parlamento e nominato cancelliere. Inoltre, le recenti forme di dittatura, le cosiddette "dittature morbide", fanno del voto uno dei principali motivi di autolegittimazione democratica. Come diceva Junger ne "Il trattato del Ribelle", le dittature hanno bisogno di far vedere a tutti che è possibile votare contro di loro, perchè così possono fingere di essere democrazie.
Attendo altre obiezioni, se vi sono...

Nè rivoltoso, nè rivoluzionario: il Ribelle.

Dovendo intervenire in una discussione dedicata all’idea di ribellione, la prima delle cose da fare è senz’altro quella di interrogarsi sulla definizione del ribelle, e il miglior modo di farlo è forse quello di paragonare la figura del ribelle a due altre figure, il cui nome comincia tra l’altro con la stessa lettera: il rivoltoso e il rivoluzionario. Queste tre figure hanno indubbiamente degli aspetti in comune. Il ribelle, il rivoltoso e il rivoluzionario, per esempio, incarnano tutti e tre una legittimità che si oppone alla legalità dell’ordine costituito. Ma tra di loro vi sono anche delle differenze.
Il rivoltoso appartiene senza alcun dubbio a tutte le epoche, e il nostro passato ne è testimone. La storia della Francia e dell’Europa può infatti leggersi come un susseguirsi quasi ininterrotto di rivolte popolari, movimenti di protesta e insurrezioni. Dalle antiche jacqueries contadine alla rivolta della Vandea, dall’epoca di Cartouche e di Mandrin all’insurrezione dei canuts lionesi, dalla Guerra dei Contadini tedeschi alla molto socialista e molto patriottica Comune di Parigi, la tenace disobbedienza di certe province e di certi ambienti sociali insofferenti, refrattari e renitenti, è una costante della nostra storia che la storiografia ufficiale ha peraltro troppo spesso trascurato. Per esempio, mentre alcuni storici avevano creduto di poter parlare di «relativo rappacificamento» a partire dal 1670, Jean Nicolas ha contato recentemente qualcosa come 8500 atti di ribellione o di rivolta in Francia tra il 1661 e il 1789. Di generazione in generazione, ci si rivolta contro la tirannia, contro la pressione fiscale, contro l’ingiustizia sociale, l’assolutismo o i poteri costituiti, ed il bersaglio è di volta in volta il principe, il prete, l’aguzzino o il tiranno. In ognuno di questi casi al rifiuto di una costrizione insopportabile si aggiunge un vero e proprio istinto di rifiuto, molto spesso alimentato dall’appartenenza culturale o linguistica, dalla solidarietà professionale o sociale, dalla chiara coscienza di appartenere ad un’entità collettiva.
Naturalmente le rivolte non sono una prerogativa dell’Ancien Régime, ma sono continuate anche nel periodo repubblicano, e ciò è un segnale di come l’avvento dell’ideologia dei diritti umani non abbia per nulla cambiato le cose. Quest’ultima, universalizzando alcuni valori particolari, ha messo fine a certe oppressioni, ma in compenso ne ha da subito suscitate delle nuove; preoccupandosi degli individui, si è disinteressata delle comunità e dei popoli; affrontando da un punto di vista esclusivamente giuridico e morale – quello dei diritti soggettivi inerenti alla natura umana – problemi legati alla nozione essenzialmente politica di libertà, ha finito per eluderli.
Il rivoluzionario appare invece in circostanze storiche molto particolari. Rispetto al rivoltoso, presenta soprattutto due grandi tratti caratteristici: da una parte è dotato di una coscienza ideologica molto più forte, dall’altra manifesta un’esigenza di trasformazione molto più radicale. Ecco perché si oppone a ciò che considera come puramente istintivo, se non ingenuo, nella semplice rivolta. Ed ecco perché, allo stesso modo, rifiuta ogni riformismo, contrapponendo all’ideologia dominante una visione del mondo diversa. In questo senso, il rivoluzionario è una figura della modernità, che non può che apparire nel momento in cui le ideologie profane hanno preso il posto dei grandi racconti religiosi, nell’epoca in cui la società, erosa dall’interno, sta per esplodere sotto l’effetto delle azioni rivoluzionarie.
Tuttavia, accanto ai rivoltosi ed ai rivoluzionari, ci sono anche i dissidenti, i liberi pensatori e i non credenti, i fondatori di samizdats ante litteram, le vittime dei cacciatori di streghe e dei tribunali della Santa Inquisizione, tutti coloro che nel corso della storia sono stati perseguitati, censurati, imprigionati per anticonformismo rispetto alle ortodossie del momento – tutti coloro che, secolo dopo secolo, si avvicendano e comunicano, formando una lunga catena fraterna i cui anelli sono le parole d’ordine del pensiero libero. Tutti questi sono già dei ribelli, e continuano ad esistere al giorno d’oggi. Sono coloro che disturbano, coloro di cui i guardiani del pensiero unico hanno deciso di non parlare; se non sono imprigionati, sono messi al bando. Le loro pubblicazioni sono a malapena tollerate, in ogni caso emarginate, condannandoli in questo modo alla morte mediatica e sociale.
Alla pari del rivoltoso, il ribelle rifiuta l’ordine dominante del mondo in seno al quale è stato gettato. Come il rivoluzionario, lo rifiuta in nome di un altro sistema di valori, di una concezione del mondo che trova in se stesso e di cui si fa portatore. Tuttavia, al contrario del rivoltoso o del resistente, il ribelle trae innanzitutto da se stesso ciò che anima il suo atteggiamento. La rivolta è legata ad una situazione, ad una congiuntura che ne è la causa, e si spegne nel momento in cui tale causa sparisce e la situazione cambia. La ribellione invece non è legata solamente alle circostanze, ma è di ordine esistenziale. Il ribelle sente fisicamente ed istintivamente l’impostura. Rivoltosi si diventa, ma ribelli si nasce.
Il ribelle è ribelle perché ogni altro modo di esistere gli è impossibile. Il resistente cessa di resistere quando non ha più i mezzi per farlo. Il ribelle, anche in prigione, continua ad essere un ribelle. Ecco perché se può dirsi perdente, non può mai dirsi vinto. Non sempre i ribelli possono cambiare il mondo. Ma mai il mondo potrà cambiare i ribelli.Il ribelle può essere attivo o contemplativo, uomo di cultura o d’azione. Sul piano strategico, può essere leone o volpe, quercia o canna. Ci sono ribelli di ogni sorta, e ciò che hanno in comune è una certa capacità di dire no. Il ribelle è colui che non cede, colui che rifiuta, colui che dice: non posso. È colui che disdegna ciò che cercano gli altri: gli onori, gli interessi, i privilegi, il riconoscimento sociale. Al tavolo da gioco, è colui che non gioca. Lo spirito del tempo scivola su di lui come pioggia sui vetri. Spirito libero, uomo libero, per lui non c’è nulla al di sopra della libertà. È la libertà stessa. «È ribelle, scrive Jünger, chiunque sia messo in rapporto con la libertà dalla legge della sua natura».
Di fronte ad un mondo per il quale non prova altro che un divertito disprezzo o un dichiarato disgusto, il ribelle non può limitarsi all’indifferenza, essendo essa ancora troppo vicina alla neutralità. Il ribelle è fatto per la lotta, sia essa anche senza speranza. Il ribelle si sente straniero al mondo che abita, ma senza mai smettere di volerlo abitare: sa che non si può nuotare contro corrente se non a condizione di non abbandonare mai il letto del fiume. La distanza interiore che lo caratterizza non lo conduce a rifiutare il contatto, poiché sa che il contatto è necessario alla lotta. E se fa «appello alle foreste» per riprendere un’espressione conosciuta, non è per rifugiarvisi – anche se spesso è in esilio –, ma per riprendere forza.
D’altra parte, scrive ancora Ernst Jünger, «la foresta è dappertutto. Ci sono foreste nel deserto così come nelle città, foreste in cui il Ribelle vive nascosto dietro la maschera di qualche professione. Ci sono foreste nella sua patria, così come in ogni altro suolo in cui si può concretare la sua resistenza. Ma ci sono soprattutto delle foreste nelle retrovie del nemico». Se ciò che distingue il rivoluzionario è la volontà di raggiungere uno scopo, il ribelle incarna innanzitutto uno stato d’animo ed uno stile. Ciò non toglie che sappia anche fissarsi degli obiettivi. Nei confronti del mondo che lo circonda, nei confronti del “corso della storia”, della congiuntura, si sforza di identificare e cogliere il momento favorevole. Per rompere l’accerchiamento, per tentare di introdurre un granello di sabbia nell’ingranaggio, ragiona su situazioni concrete. In questo è innanzitutto mobile. Mobilita il pensiero, e fa uso di un pensiero mobile. Non è soldato ma partigiano. Non resta dietro il fronte – sa attraversare tutti i fronti.


L’"ideologia dell’Identico"
Contro che cosa ci si deve ribellare al giorno d’oggi? Di fronte all’ascesa del pensiero unico, di fronte al gonfiarsi di un’onda straordinaria di ciò che non esitiamo a chiamare il conformismo planetario, di fronte alle diverse patologie che affliggono le nostre società, di fronte alle varie minacce che su di esse gravano e che oscurano il loro avvenire, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Mi sembra tuttavia che la maggior parte di questi fenomeni ai quali tentiamo di opporci abbia una causa comune. Mi sembra cioè che questi fenomeni si rivelino come conseguenze di un’ideologia ben precisa, secolare e multiforme, che propongo di chiamare “l’ideologia dell’Identico”.
L’ideologia dell’Identico è un’ideologia che si sviluppa a partire da ciò che c’è di comune in tutti gli uomini. Più precisamente, si sviluppa tenendo conto solamente di ciò che gli uomini hanno in comune ed interpretandolo come l’Identico, e ciò significa, in altre parole, che una tale ideologia non può che aspirare all’appiattimento. L’Ideologia dell’Identico fa spesso riferimento all’uguaglianza, ma ad un’uguaglianza puramente astratta: in assenza di un criterio preciso che permetta di determinarla concretamente, l’uguaglianza non è altro, infatti, che un diverso nome dell’Identico. L’ideologia dell’Identico considera dunque l’uguaglianza universale tra gli uomini come un’uguaglianza in sé, slegata da ogni elemento di concretezza che permetterebbe di accertarla. È un’ideologia allergica a tutto ciò che specifica e caratterizza la singolarità, che interpreta ogni distinzione come potenzialmente spregiativa, che considera le differenze contingenti, transitorie, inessenziali o secondarie. Il suo motore è l’idea di Unico, che è ciò che non sopporta l’Altro, e intende ridurre tutto all’unità: Dio unico, civiltà unica, pensiero unico.
Quest’ideologia si vuole contemporaneamente descrittiva e normativa, poiché pone l’identità fondamentale di tutti gli uomini tanto come un fatto acquisito quanto come un obiettivo desiderabile e realizzabile – senza mai (o raramente) interrogarsi sull’origine di questo scarto tra l’esistente e la realtà a venire. Essa sembra in questo modo procedere dall’essere al dover-essere. Ma in realtà è proprio sulla base della sua propria normatività, della sua propria concezione del dover-essere, che essa postula un essere unitario immaginario, semplice riflesso della mentalità che la ispira.
Affermando l’identità congenita degli individui, l’ideologia dell’Identico si scontra con tutto ciò che, nella vita concreta, con ogni evidenza, li rende differenti, e deve così spiegare che tali differenze non sono altro che aspetti secondari, sostanzialmente insignificanti. Gli uomini, ci dice, possono benissimo essere differenti in apparenza, anche se poi in realtà sono tutti uguali. Essenza ed esistenza sono in questo modo separate, come lo sono anima e corpo, spirito e materia, e come lo sono anche i diritti (fondati sulle caratteristiche della “natura umana”) e i doveri (che si esercitano solo all’interno di una relazione sociale, quindi in un contesto ben preciso). L’esistenza concreta non sarebbe così che una maschera che impedirebbe di vedere l’essenziale. Se ne deduce che l’ideologia dell’Identico non è nemmeno unitaria nei suoi presupposti. Erede del mito platonico della caverna e della distinzione teologica tra l’essere creato e quello non creato, ha una struttura ed un’ispirazione dualiste, nel senso che non può sostenere la prospettiva dell’Identico se non appoggiandosi su qualcosa che è estraneo alla diversità o su qualcosa che la trascende.
Per sradicare la diversità, per ricondurre l’umanità all’unità politica e sociale, l’ideologia dell’Identico fa spesso appello, nelle sue formulazioni profane, alle teorie che vedono nella sovrastruttura sociale, nelle conseguenze della dominazione, nell’influenza dell’educazione o dell’ambiente, la causa di queste distinzioni, che vede come un male provvisorio. La fonte del male sociale è così posta all’esterno dell’uomo, come se l’esterno non fosse altro che il prodotto e il prolungamento dell’interno. Modificando le cause esterne, si potrebbe così trasformare il foro interno dell’uomo, oppure addirittura far emergere la sua vera “natura”. Per riuscirci si farà ricorso sia a metodi autoritari e coercitivi, sia a condizionamenti o contro-condizionamenti sociali, sia al “dialogo” e all’“appello alla ragione”, senza d’altra parte ottenere più risultati in un caso che nell’altro – il fallimento essendo poi sempre attribuito non già ad un errore nelle ipotesi di partenza, ma al carattere ancora insufficiente dei mezzi impiegati. L’idea sottostante è quella di una società pacifica o perfetta, o almeno di una società che diventerebbe “giusta” se si facessero sparire tutte le variabili esterne che impediscono l’avvento dell’Identico.
L’ideologia dell’Identico è oggi ampiamente dominante. Si potrebbe addirittura dire che essa è sia la norma fondamentale da cui derivano tutte le altre, sia la norma unica di un’epoca senza norme che non ne vuole avere di altre. Ma essa ha anche una storia: è nata innanzitutto in ambito teologico, concretandosi in Occidente nell’idea cristiana secondo cui tutti gli uomini, al di là delle loro caratteristiche individuali, al di là del contesto particolare della loro esistenza individuale, sono titolari di un’anima in analoga relazione con Dio. Tutti gli uomini sono per natura e dignità uguali essendo stati creati ad immagine del Dio unico. Il corollario, che è stato ampiamente sviluppato da sant’Agostino, è quello di un’umanità fondamentalmente una, le componenti della quale sarebbero tutte chiamate a svilupparsi nella stessa direzione, realizzando tra di loro una convergenza sempre più grande. Si tratta della radice cristiana dell’idea di progresso. Divenuta terrena attraverso il lento processo di secolarizzazione, quest’idea darà vita all’idea di una ragione comune a tutti – «una e intera in ciascuno», dirà Cartesio – alla quale ogni uomo parteciperebbe in ragione della sua umanità.
Non ho chiaramente il tempo di esaminare ora il modo in cui l’ideologia dell’Identico ha generato in seno alla cultura occidentale tutte le strategie normative/repressive che Michel Foucault ha descritto in modo esaustivo. Ricorderò soltanto che lo Stato-nazione, nel corso del suo percorso storico, si è preoccupato più di assimilare che di integrare, prefiggendosi di ridurre le differenze uniformando la società globale. Questa tendenza è stata continuata e accelerata dalla Rivoluzione del 1789 che, fedele allo spirito geometrico, ha decretato la soppressione di tutti quei corpi intermedi che l’Ancien Régime aveva lasciato sopravvivere.
Da allora ciò che interessa è solo l’umanità e, analogamente, una cittadinanza il cui esercizio è concepito come partecipazione all’universalità della cosa pubblica. Gli Ebrei diventano dei “cittadini come gli altri”, le donne “degli uomini come gli altri”. Ciò che li caratterizza individualmente, l’appartenenza a un sesso o a un popolo, viene considerato inesistente o viene nascosto confinandolo nella sfera privata. Le grandi ideologie moderne si adeguano così ad un ideale di instaurazione o restaurazione dell’unità generale. Sogneranno così l’unificazione del mondo da parte del mercato o una società “omogenea” scevra da ogni negatività sociale “straniera”, oppure, ancora, un’umanità riconciliata con se stessa che ha infine ritrovato la sua essenza. L’ideale politico sarà l’eliminazione progressiva delle frontiere che separano arbitrariamente gli uomini: ci si dirà “cittadini del mondo”, come se il “mondo” fosse – o potesse essere – un’entità politica.
Con la modernità, come tutti sanno, questa tendenza all’omogeneo è stata portata all’estremo nelle società totalitarie e da parte di un potere centrale che si reputa l’unica fonte di legittimità possibile. Nelle società postmoderne occidentali, lo stesso risultato si ottiene con la mercificazione del mondo, processo più mite, certo, ma non per questo meno efficace, visto che il grado di omogeneità delle società occidentali attuali supera ampiamente quello delle società totalitarie del secolo scorso. Al giorno d’oggi quest’ideologia dell’Identico si sta diffondendo in ogni ambito. Da essa deriva lo sradicamento progressivo delle specificità culturali e degli stili di vita diversi; essa è all’origine della confusione crescente dei ruoli sociali maschili-femminili, così come è all’origine di un’immigrazione di massa incontrollata, che porta con sé ogni giorno gravissime patologie sociali. È essa, infine, che ritroviamo nell’avvento della nuova religione dei diritti dell’uomo, che pretende di sottomettere la Terra intera ai suoi diktats giuridici e morali.
L’antropologia culturale del XX secolo si era fondata su un presupposto relativista, ovvero la convinzione che le idee, i valori e i comportamenti caratteristici di ogni popolo o cultura non possono essere capiti ed apprezzati che nel contesto di tale popolo o cultura. Questo presupposto, che scaturiva in parte dalle rappresentazioni organiciste della filosofia politica romantica del secolo scorso, è anch’esso al giorno d’oggi sempre più dimenticato in nome di questa ideologia dei diritti dell’uomo, che pretende di educare il mondo intero sottomettendo tutte le culture agli stessi valori fondamentali, che non sono niente altro che i valori specifici di una cultura particolare. Sotto le sembianze della generosità, un nuovo imperialismo ha quindi inizio, poiché coloro che cercano di cancellare dappertutto le differenze cercano in realtà di far assomigliare tutte le culture alla loro. È una legge che si è ripetuta dappertutto nella storia.
L’ideologia dell’Identico è inoltre perfettamente contraddittoria. Nel momento stesso in cui si dice unificatrice, sancisce uno strappo insuperabile tra l’umanità e il resto dei viventi, mentre all’interno delle società umane, a causa dei suoi principi individualisti, provoca una disgregazione sempre maggiore delle strutture del vivere comune. L’obiettivo universalista è infatti sempre legato all’individualismo, non potendo tale ideologia porre l’umanità come fondamentalmente una se non concependola come composta di atomi individuali, visti nel modo più astratto possibile, ovvero al di fuori di ogni contesto e mediazione. È questo il motivo per cui essa mira a far sparire tutto ciò che si frappone tra l’individuo e l’umanità: culture popolari, comunità vive, corpi intermediari, stili di vita diversi.
L’ideologia dell’Identico si diffonde eliminando le differenze, ma eliminando contemporaneamente anche ciò che le tiene insieme, ovvero le strutture flessibili in seno alle quali le differenze s’iscrivono, che sono anch’esse diverse. Prendendo di mira differenze che sono sempre organicamente ordinate, essa suscita nello stesso tempo l’atomizzazione e la divisione. In mancanza di una cornice che lo racchiuda, la febbre dell’Uno porta alla dissoluzione del legame sociale. Quest’aumento dell’individualismo, di cui si felicitano i liberali, ha portato inoltre all’avvento dello Stato-Provvidenza, di cui invece si lamentano. È una constatazione paradossale, che è però la conseguenza di una logica perfetta. Più le strutture comunitarie crollavano, più lo Stato doveva prendersi carico della domanda di solidarietà degli individui. Viceversa, più garantiva loro sicurezza, più li dispensava «dall’intrattenere relazioni familiari o comunitarie che costituivano in precedenza protezioni indispensabili». Movimento dialettico e circolo vizioso: da una parte la società differenziata si sfalda, dall’altra lo Stato omogeneizzante avanza con la stessa rapidità dell’individualismo. Più individui isolati ci sono, più lo Stato può trattarli uniformemente.
Concorrenti ed opposte tra di loro, le grandi ideologie moderne, affrontandosi, hanno accentuato le divisioni e le separazioni prodotte dalla diffusione dell’individualismo. Questo risultato, anch’esso paradossale, non ha fatto che stimolarle nella loro ambizione: di fronte allo spettro dell’“anarchia” e della “dissoluzione sociale”, della lotta di classe, della guerra civile o dell’anomia sociale, esse non hanno fatto altro che sostenere più intensamente ancora l’allineamento nel presente e il livellamento nel futuro. Il problema è che l’ideologia dell’Identico non può che esigere la radicale esclusione di ciò che non può essere ridotto all’Identico. La diversità irriducibile diventa così il principale nemico che bisogna sradicare ad ogni costo. È la molla di ogni ideologia totalitaria: bisogna eliminare questi “uomini di troppo” che ostacolano con la loro stessa esistenza l’avvento di una società omogenea o di un mondo unificato. Chi parla in nome dell’“umanità” mette inevitabilmente i suoi avversari fuori dall’umanità.
Allo stesso modo, i difensori dell’ideologia dell’Identico presentano spesso il pensiero della differenza come sinonimo di pensiero dell’esclusione, contrapponendogli l’idea che il rispetto dell’Altro è proporzionale al grado di similitudine. L’affermazione dell’uguaglianza sarebbe in questo modo non solamente indissociabile dalla negazione della differenza, ma la conseguenza stessa di questa negazione. Ma in realtà è vero il contrario. Prova ne è, innanzitutto, che tutte le dittature hanno cercato l’omogeneità e l’uniformità; in secondo luogo il pensiero dell’in-differenza, della similitudine, lungi dal favorire il riavvicinamento, la comprensione e l’armonia, non smette di sfociare in altre forme di concorrenza sociale e di ostilità generalizzata. Non solamente la differenza ritorna sempre, non essendoci due soli esseri viventi che siano in tutto e per tutto identici, ma ritorna con tanta più forza quanto più cerchiamo di sopprimerla.
Ostile alla differenza, l’ideologia dell’Identico conduce inevitabilmente all’indifferenziazione. Ora, l’indifferenziazione è sempre un segnale di disintegrazione sociale, e tale disintegrazione non può che produrre a sua volta comportamenti aggressivi ed ostili. Gli uomini, infatti, hanno paura dell’Identico almeno quanta ne hanno dell’Altro, se non di più. Le ideologie dominanti credono in modo ecumenico che l’omogeneizzazione del mondo non potrebbe portare che alla pace poiché permetterebbe una migliore “comprensione”. Ma ci accorgiamo ben presto che, al contrario, tale omogeneizzazione suscita conflitti identitarî, risveglia irredentismi secolari e genera nazionalismi spasmodici. All’interno stesso delle società, l’ideologia dell’Identico generalizza la rivalità mimetica descritta ottimamente da René Girard, esacerbando il desiderio di distinguersi con tanta più forza quanto più proibisce la distinzione, e questo è il motivo per cui si può dire che intimamente l’Identico fomenta la guerra. Nella migliore delle ipotesi generalizza l’indifferenza e la noia. Nella peggiore, porta a reazioni violente e allo scatenarsi delle passioni.


La mondializzazione
L’ideologia dell’Identico si materializza al giorno d’oggi sotto i nostri occhi nel fenomeno della mondializzazione. Abbiamo già avuto l’occasione di parlarne qualche anno fa, ma sentiamo il bisogno di ritornarci, poiché la mondializzazione – detta anche globalizzazione – costituisce ormai, che lo si voglia o meno, lo sfondo della nostra storia presente. Resa possibile dal crollo del sistema sovietico e dal rapido sviluppo dei mezzi di comunicazione elettronica, la mondializzazione rappresenta un processo di unificazione progressiva della Terra. Ma non si tratta di un’unificazione qualunque. Quella che si realizza sotto i nostri occhi opera all’interno della logica del capitale e dell’ideologia del mercato. In altri termini, la Terra tende ad unificarsi sotto forma di un grande mercato. Il mercato è per definizione il luogo in cui le differenze sono neutralizzate, attraverso la riduzione a più o meno grandi quantità di quell’equivalente universale che è il denaro. Il mercato trasforma tutto in merce, mentre, al contrario, ciò che non può essere trasformato in merce sfugge al mercato. Con la mondializzazione i paesi sviluppati passano dalla società con mercato alla società di mercato. Ciò significa che interi frammenti della vita umana che in precedenza erano fuori controllo, a partire dalle produzioni artistiche e culturali, sono ormai inclusi nel mercato, mentre, parallelamente, il modello di mercato si interiorizza nelle coscienze, portando poco a poco con sé una reificazione generalizzata dei rapporti sociali.
È chiaro che non è la sinistra “cosmopolita” ad aver portato a compimento la mondializzazione, essendo questa piuttosto opera della destra liberale. È quest’ultima ad aver facilitato e poi accompagnato il compimento della tendenza secolare del capitalismo a diffondersi sempre di più – non avendo il mercato altri limiti che se stesso. Il capitalismo si è così rivelato più efficace del comunismo nell’abbattere le frontiere, mettendo di fronte a una dolorosa alternativa coloro che lo combattevano ieri in nome di un ideale internazionalista.
Le conseguenze di questa mondializzazione commerciale senza regole, senza controllo e direzione, di questa macchina che avanza sola travolgendo tutto al suo passaggio, sono ben note. Si tratta innanzitutto della tendenza all’omogeneizzazione planetaria, all’uniformazione degli stili di vita e dei comportamenti tramite una generalizzazione di un modello antropologico che riporta l’uomo alla sua dimensione di produttore-consumatore. La mondializzazione tende alla monocultura mondiale, che sfocia in un imperialismo che non ha nemmeno il coraggio di dire il suo nome, poiché l’espansione planetaria del mercato corrisponde all’imposizione unilaterale dello stile di vita occidentale al mondo intero. E che sfocia inoltre in una propaganda pubblicitaria in scala planetaria in favore di un ideale di vita ridotto al consumo e al divertimento, propaganda cui si aggiunge il discredito di ogni modello alternativo, la celebrazione ossessiva dell’ordine costituito da parte di un sistema mediatico il cui principale piacere consiste nell’auto-contemplazione davanti allo specchio messo lì dal sistema stesso, e infine, la creazione, acceleratasi dopo gli avvenimenti del 11 settembre scorso, di una sorta di Panopticon planetario: è l’avvento della società di controllo e di sorveglianza totale.
La mondializzazione significa, ancora, l’abolizione del tempo e dello spazio. Tutto succede e si moltiplica ormai in “tempo zero”, ovvero immediatamente. Gli attentati di New York e di Washington sono avvenuti nello stesso momento in tutte le televisioni del mondo, gli scambi commerciali si effettuano in pochi secondi da un angolo all’altro del pianeta, la minima crisi locale investe immediatamente il mondo intero.
Lo spazio è abolito alla stessa maniera. I territori perdono ogni giorno di più un po’ della loro importanza. Le frontiere non arginano più nulla – né le informazioni, né i programmi, né i segni o i simboli, né i flussi finanziari, né le merci o le migrazioni umane – perdendo così il ruolo che era stato loro per secoli, ovvero quello di garantire la permanenza delle identità e delle culture.
Parallelamente, la distinzione tra “interno” ed “esterno” perde efficacia. È particolarmente significativo, per esempio, che le forze di polizia debbano oggi sempre di più far fronte a situazioni di tipo militare, mentre le forze militari fanno guerre che ci vengono presentate come operazioni internazionali di polizia. Ciò significa che la mondializzazione fa sparire le differenze tra interno ed esterno. Nella misura in cui le frontiere non arginano più nulla, la mondializzazione consacra l’avvento di un mondo senza esterno, un mondo che per definizione non ha nulla sopra di lui – ovvero di una tirannia globale che non è limitata da nulla.
La mondializzazione segna in questo modo l’entrata nell’epoca postmoderna: impotenza sempre maggiore degli Stati-nazione, recupero d’importanza delle comunità locali e delle logiche continentali, indebolimento delle organizzazioni di massa a favore delle reti. Il mondo unificato non ha più centro né periferia, ed è questo il motivo per cui sarebbe ingenuo cercare un “direttore d’orchestra” della mondializzazione. La mondializzazione non dipende da nessuno anche se in parte – ma solo in parte – è sinonimo di americanizzazione, e coloro stessi che ne approfittano di più ne sono gli strumenti, gli agenti, piuttosto che le menti. Trasformata dalla logica del capitale, essa funziona come la tecnoscienza, secondo la sua propria logica e le sue proprie dinamiche: la sua sola esistenza è all’origine del suo sviluppo. In una tale situazione, ogni punto del pianeta diventa in qualche modo centro e periferia di per se stesso. Le grandi società industriali, i cartelli di narcotrafficanti, le mafie e le organizzazioni criminali funzionano secondo lo stesso modello della delocalizzazione e della dispersione. Nel mondo delle reti, la logica disgiuntiva del sistema è una logica di tipo virale. I virus che colpiscono i computers, le epidemie attuali (dall’AIDS alla mucca pazza, dall’afta alle nuove malattie infettive), le minacce di guerra batteriologica, l’azione di organizzazioni terroristiche implicate nella guerra delle reti: tutto ciò fa capo ad uno stesso modello, tipicamente postmoderno, di logica virale.
Ma la mondializzazione è anche il suo contrario. Più mette in atto l’unificazione, più accresce la frammentazione. Più mette in atto il globale, più favorisce il locale, secondo un classico movimento dialettico. Ma attenzione: se la globalizzazione distrugge le identità nel momento stesso in cui fa sorgere il desiderio di mantenerle o di farle rinascere, quelle che resuscita non sono le stesse identità di ieri. La mondializzazione fa sparire le identità organiche, integrate, equilibrate, per restituirle il più delle volte reattive, convulsive e contratte.

Identità e principio di diversità
L’ascesa del radicalismo islamico, il fiorire di irredentismi, la comparsa di un neoterrorismo globale sono alcuni degli aspetti tra gli altri. Conosciamo la massima che riassume questa dialettica: «Jihad vs. McWorld». Tale massima ci pone di fronte al problema di sapere cosa fare nel momento in cui rifiutiamo “McWorld” senza per questo scegliere “Jihad”.È chiaro a questo punto che si deve ridare coraggio alla sfida identitaria. Dopo la libertà e l’uguaglianza, l’identità sta diventando la grande passione degli anni a venire. La libertà e l’uguaglianza sono state in passato negate da poteri dittatoriali di tipo classico. L’identità, invece, diventa tanto più problematica quanto più l’ideologia dell’Identico si diffonde. Ma anche qui bisogna prestare attenzione. L’identità è al giorno d’oggi tanto un problema che una soluzione. Infatti, se c’è domanda di identità, è soprattutto perché le identità si sono dissolte, perché non si reggono più da sé. Opporre l’identità alla mondializzazione non può dunque limitarsi a ripetere uno slogan, ad accontentarsi di una parola-feticcio. Anche le identità ereditate diventano oggi identità scelte, innanzitutto perché il loro contenuto è sempre più vago, e poi perché le identità al giorno d’oggi sono efficaci solo quando scegliamo e decidiamo di riconoscerci in esse.
Piuttosto che accontentarsi di invocare l’identità, si tratta dunque di definirla e di darle un senso, di spiegare perché essere portatore di un’identità piuttosto che di un’altra permette di giustificare un modo di vedere, di pensare e di vivere non paragonabile ad altri. L’identità non è mai statica, ma dinamica. Non è il passato, ma piuttosto il modo in cui immaginiamo e ricostruiamo il passato. Complessa, fragile, sempre emergente, essa è una narrazione, scrive Paul Ricoeur, che definisce l’identità narrativa come la capacità di ricostruire continuamente il passato per rendere il presente più coerente e per proiettarsi nel futuro. Allo stesso modo, l’identità non è un’essenza, ma una sostanza. Non è ciò che si oppone al cambiamento, ma ciò che permette di restare se stessi cambiando continuamente. Infine, lungi dall’essere una proprietà isolata, è indissociabile da una relazione, il che significa che è sempre riflessiva, poiché non ci si costruisce che in rapporto all’altro. Ed è questo il motivo per cui non si può pensare l’identità rimanendo in una logica del bunker o dell’etnocentrismo: la costruzione di sé non può fare a meno dello scambio con l’altro. La mondializzazione segna forse la fine delle identità territoriali, ma non certo la fine delle identità tout court, e ci chiede così uno sforzo enorme per dare loro un nuovo contenuto.
All’ideologia dell’Identico bisogna infine contrapporre il principio di diversità. Un principio trae forza dalla sua stessa evidenza. La diversità del mondo costituisce la sua unica e vera ricchezza, essendo essa artefice del bene più prezioso: l’identità. I popoli, così come le persone non si equivalgono. Dire che nessuno vale più degli altri non significa dire che sono tutti sono uguali – l’Identico in vesti diverse –, ma che sono tutti diversi. La tolleranza, se questa parola ha ancora un senso, non consiste nel guardare l’Altro per vedere in lui l’Identico, ma nel capire ciò che lo costituisce in quanto altro, ovvero nel cogliere l’alterità, realtà irriducibile ad ogni “comprensione” che si basi su una semplice proiezione di sé. L’imperativo che deriva da questo principio è semplice: bisogna fare di tutto per non trasmettere ai nostri figli un mondo meno differenziato, quindi meno ricco, di quello che abbiamo ereditato.
Non si tratta tuttavia di cadere nell’idealismo. Il differenzialismo non impedisce i giudizi di valore, non più di quanto condanni ad un relativismo che ignora la verità. Evita solo di restare in bilico in una posizione astratta, di porsi come istanza dominante (perché “universale” o “superiore”) in virtù della quale sarebbe possibile, se non necessario, imporre agli altri popoli un modo di essere che non gli appartiene. Tuttavia, le identità possono fronteggiarsi, certe differenze possono affermarsi a spesa di altre. Naturalmente, in un’occasione simile è normale che si difenda per prima la propria appartenenza, ma una cosa è difendere la propria identità contro un abuso o un’aggressione (colonizzazione, immigrazione etc.), altra è invece considerare che l’unica identità ad avere un valore sia quella di cui si fa parte. Nel primo caso il principio di diversità non è messo in causa, mentre nel secondo caso lo è.
Non si tratta nemmeno di passare da un estremo all’altro privilegiando ciò che è differente al punto di dimenticare ciò che è comune. Sosteniamo semplicemente che la differenza è più importante. È più importante, innanzitutto, perché è essa che specifica, che definisce l’identità, è essa che fa di ogni persona o di ogni popolo un essere insostituibile. È più importante, in secondo luogo, perché l’appartenenza all’umanità non è mai immediata, ma al contrario è sempre mediata: si è umani in quanto si appartiene ad una delle culture o delle collettività costitutive dell’umanità. È più importante, infine, perché è a partire dalla singolarità che si può accedere all’universalità, e non il contrario, che significherebbe dedurre da un universale posto a priori un’idea astratta della singolarità. Ogni esistenza concreta è così indissociabile da un contesto particolare, da una o più appartenenze specifiche. Ogni appartenenza è sicuramente una restrizione, ma è una restrizione che ci libera dalle altre. Il sogno dell’incondizionato non è che un sogno.
C’è evidentemente una contraddizione tra l’omogeneizzazione planetaria e la difesa della causa dei popoli, che implica il riconoscimento ed il mantenimento della loro pluralità. Non si può difendere contemporaneamente l’ideale di un mondo unificato e il diritto dei popoli a disporre di se stessi, poiché nulla ci garantisce che ne dispongano nel senso di questo ideale. Allo stesso modo, non si può difendere da una parte il pluralismo come legittimazione e rispetto delle differenze, continuando dall’altra a desiderare l’uguaglianza delle condizioni, che ridurrà tali differenze. Infine, e soprattutto, se sulla terra non ci sono che uomini “come gli altri”, per quale motivo proclamare i diritti imprescrittibili dei singoli individui? Come celebrare contemporaneamente ciò che ci rende singolarmente insostituibili e ciò che ci renderebbe virtualmente intercambiabili?
Certo, si può sempre eludere tali domande con delle formule acrobatiche, come ad esempio «l’uguaglianza nella differenza», ma espressioni di questo tipo non hanno alcun senso: non fanno pensare ad altro che ad una differenza indifferente. Non si può sostenere il diritto alla differenza pensando che ciò che lega gli uomini all’Identico sia più profondamente costitutivo della loro identità sociale di ciò per cui si distinguono gli uni dagli altri.
L’incommensurabilità delle persone o delle culture non è sinonimo di incomunicabilità. Essa implica solo il riconoscimento di ciò che le distingue in modo irriducibile. L’ideologia dell’Identico aspira alla trasparenza totale, ma tutto ciò che riguarda la società implica sempre una zona d’ombra. Una società nella quale non ci sarebbero che uomini “come gli altri” sarebbe una società in cui gli individui sarebbero diventati interscambiabili, al punto che la scomparsa o l’eliminazione di uno di essi, dal punto di vista della società globale, avrebbe un’importanza relativa. La differenza è inoltre un fattore di resistenza, e dunque di libertà. Se gli individui e i popoli fossero fondamentalmente uguali, o se fossero totalmente plasmabili, sarebbero molto più minacciati dalle propagande e dai condizionamenti. Il riapparire continuo della loro diversità, e il profondo polimorfismo della specie umana, mostrano invece che essi sono antropologicamente resistenti ai modelli omogeneizzanti.

Conclusioni
La concomitanza di un presente fatto di angoscia e frustrazione, di debolezza ed esclusione, e di un futuro pieno di minacce di ogni sorta, la crisi delle ideologie moderne e delle religioni salvifiche, la paura del caos sociale, e infine lo spettacolo della dissoluzione progressiva delle identità collettive, costituisce sicuramente una miscela esplosiva. Con la mondializzazione entriamo in un’epoca che non dice più nulla sugli obiettivi della vita sociale, entriamo in un modo di rapportarsi al reale che mette la comunicazione al di sopra del suo contenuto di verità, entriamo in una prospettiva in cui ogni logica che non sia economica o morale è messa da parte. La mondializzazione è senza fine? Naturalmente nessuno può rispondere a questa domanda, ma si possono se non altro fare alcune constatazioni. La prima è che il sistema mondializzato rimane un sistema altamente vulnerabile, proprio a causa della sua stessa estensione e del carattere globale della sua portata. In un sistema siffatto ogni cosa si ripercuote su ogni altra. Il minimo choc, la minima disfunzione, non rimangono circoscritti all’ambiente circostante, ma si propagano istantaneamente in tutto il sistema – e tanto più velocemente, come si è visto recentemente, quanto più l’asimmetria delle forze in campo subentra al rapporto di forze tendente all’“equilibrio”.
La seconda constatazione è che la globalizzazione fornisce anche i mezzi per combatterla. Le reti sono infatti un’arma che permette di mettere in relazione tra loro gli spiriti ribelli dispersi in ogni angolo della Terra. Il declino degli Stati-nazione libera le energie alla base, crea nuovo spazio per la democrazia partecipativa, moltiplica le possibilità di azione locale autonoma. Favorendo la riapparizione della dimensione politica del sociale che le grandi macchine statali avevano a lungo occultato, esso favorisce contemporaneamente l’applicazione ad ogni livello del principio di sussidiarietà, che è uno dei modi migliori di rimediare alla tendenza attuale della globalizzazione. Asimmetria delle forze: non investire nel globale, ma opporre le reti alla macchina, il virus al sistema, il locale al globale.
Infine, non dimentichiamoci che la storia, lungi dall’essere “finita”, è sempre aperta. Lo è oggi molto di più di quanto non lo fosse ieri, nella misura in cui siamo entrati con ogni evidenza in un periodo di transizione. Nessuno aveva previsto uno solo dei grandi avvenimenti cui abbiamo assistito a partire dalla caduta del Muro di Berlino. Tuttavia, il sistema dei media non fa che ripetere che viviamo nel migliore dei mondi possibili, o addirittura nel solo mondo possibile, che non c’è alternativa, e che ogni tentativo di cambiare regole o norme non potrebbe far altro che peggiorare le cose. È a questa grande menzogna, di fronte alla quale tanti, troppi si sono già arresi, che bisogna rispondere, provando che invece un’alternativa è sempre possibile.
Gli spiriti ribelli sono sempre esistiti. Ma il mondo attuale riserva loro un posto del tutto particolare. All’epoca della modernità, il ribelle appariva in ritardo rispetto al rivoluzionario. Oggi che la modernità è agli sgoccioli, egli riconquista completamente il suo posto. La mondializzazione, come ho detto, fa della Terra un mondo senza esterno, che non si può più attaccare dal di fuori. Un mondo siffatto è destinato non tanto all’esplosione, quanto alla depressione implosiva. La mondializzazione consacra l’avvento delle reti, la cui influenza si propaga come un virus. Il ribelle si confà a questo mondo, proprio perché anima delle reti diffonde le sue idee in modo virale.
In un mondo che tende all’omogeneo il ribelle, infine, rappresenta la singolarità stessa. In un mondo sempre più conformista, egli è l’anticonformismo stesso. In un mondo destinato alla trasparenza totalitaria, egli è un punto oscuro, un soggetto che ha saputo rimanere reale in un mondo di oggetti virtuali, un insorto per antonomasia in un mondo destinato alla sorveglianza totale, uno straniero che potremmo escludere di diritto in nome della lotta contro l’esclusione se lui stesso non si fosse escluso a priori. Ecco perché il futuro appartiene al pensiero ribelle, a quel pensiero che segue e traccia confini inediti, disegna una nuova topografia, prefigura un mondo diverso. La storia non è mai finita, rimane aperta. È sempre imprevedibile. Ecco perché non bisogna mai abbassare la guardia di fronte a ciò che ci aspetta, di fronte a ciò che riusciamo solamente a presagire e intravedere, ma non a prevedere.
scritto di Alain de Benoist

mercoledì 27 febbraio 2008

La società della Decrescita

Berlusconi e il nucleare
Per anni ci hanno riempito la testa di paroloni quali "svilluppo sostenibile" e "progresso sensibile". Ci hanno parlato di "ambientalismo del fare" e di "impatto ambientale".
Il presupposto ideologico e culturale che stava e sta alla base di tali affermazioni è che il progresso, il futuro, avesse dei conti da pagare molto più bassi dei miglioramenti che generava. Ultimamente, politicanti di tutti gli schieramenti politici stanno rivalutando l'energia nucleare: addirittura, Berlusconi e Veltroni (cioè i due leaders degli schieramenti "contrapposti" alle prossime elezioni politiche) hanno inserito il nucleare all'interno dei programmi elettorali: il primo, Berlusconi, dichiarando che il nucleare è l'unica possibilità per ridurre il gap energetico italiano rispetto al resto d'Europa; il secondo, Veltroni, con maggior cautela del Cavaliere si è dichiarato disponibile a rivedere il NO secco al nucleare che sempre la sinistra italiana ha posto nell'agone politico.
Sarebbe facile ricordare a lorsignori che un referendum ha vietato l'energia nucleare in Italia, che i paesi europei (come Francia e Germania) stanno chiudendo le fabbriche nucleari, che l'energia nucleare è, ad oggi, la più pericolosa fonte di energia a disposizione dell'Uomo, che la rinascita di fabbriche nucleari in Italia ridurrebe del 2% il fabbisogno energetico nazionale.
A lorsignori, invece, rispondo facendo notare che l'ideao di sviluppo, di progresso, di modernizzazione è ormai morta: il pianeta Terra sta raggiungendo il punto di non-ritorno, e pertanto non è più possibile svilupparsi. Anzi, bisogna decisamente frenare, ed invertire la rotta. Alla crescita "a tutti i costi" va sostituita la Decrescita.
Avrò modo, in futuro, di illustrare in maniera approfondita cosa significa Decrescita, e i correlati Autoconsumo e Altroconsumo. Oltre ad invitarvi a visitare il links presenti in questo blog (Decrescita e Decrescita Felice) vi invito anche a leggere i seguenti otto punti espressi da Serge Latouche, professore di Scienze Economiche all'Università di Paris-Sud (Francia), esponente di riferimento del movimento altermondialista e antimodernista, il quale ha sintetizzato la sua proposta "in otto R":
Rivalutare. Rivedere i valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo la nostra vita, cambiando quelli che devono esser cambiati. L’altruismo dovrà prevalere sull’egoismo, la cooperazione sulla concorrenza, il piacere del tempo libero sull’ossessione del lavoro, la cura della vita sociale sul consumo illimitato, il locale sul globale, il bello sull’efficiente, il ragionevole sul razionale. Questa rivalutazione deve poter superare l’immaginario in cui viviamo, i cui valori sono sistemici, sono cioè suscitati e stimolati dal sistema, che a loro volta contribuiscono a rafforzare.
Ricontestualizzare. Modificare il contesto concettuale ed emozionale di una situazione, o il punto di vista secondo cui essa è vissuta, così da mutarne completamente il senso. Questo cambiamento si impone, ad esempio, per i concetti di ricchezza e di povertà e ancor più urgentemente per scarsità e abbondanza, la “diabolica coppia” fondatrice dell’immaginario economico. L’economia attuale, infatti, trasforma l’abbondanza naturale in scarsità, creando artificialmente mancanza e bisogno, attraverso l’appropriazione della natura e la sua mercificazione.
Ristrutturare. Adattare in funzione del cambiamento dei valori le strutture economico-produttive, i modelli di consumo, i rapporti sociali, gli stili di vita, così da orientarli verso una società di decrescita. Quanto più questa ristrutturazione sarà radicale, tanto più il carattere sistemico dei valori dominanti verrà sradicato.
Rilocalizzare. Consumare essenzialmente prodotti locali, prodotti da aziende sostenute dall’economia locale. Di conseguenza, ogni decisione di natura economica va presa su scala locale, per bisogni locali. Inoltre, se le idee devono ignorare le frontiere, i movimenti di merci e capitali devono invece essere ridotti al minimo, evitando i costi legati ai trasporti (infrastrutture, ma anche inquinamento, effetto serra e cambiamento climatico).
Ridistribuire. Garantire a tutti gli abitanti del pianeta l’accesso alle risorse naturali e ad un’equa distribuzione della ricchezza, assicurando un lavoro soddisfacente e condizioni di vita dignitose per tutti. Predare meno piuttosto che “dare di più”.
Ridurre. Sia l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e consumare che gli orari di lavoro. Il consumo di risorse va ridotto sino a tornare ad un’impronta ecologica pari ad un pianeta. La potenza energetica necessaria ad un tenore di vita decoroso (riscaldamento, igiene personale, illuminazione, trasporti, produzione dei beni materiali fondamentali) equivale circa a quella richiesta da un piccolo radiatore acceso di continuo (1 kw). Oggi il Nord America consuma dodici volte tanto, l’Europa occidentale cinque, mentre un terzo dell’umanità resta ben sotto questa soglia. Questo consumo eccessivo va ridotto per assicurare a tutti condizioni di vita eque e dignitose.
Riutilizzare. Riparare le apparecchiature e i beni d’uso anziché gettarli in una discarica, superando così l’ossessione, funzionale alla società dei consumi, dell’obsolescenza degli oggetti e la continua “tensione al nuovo”.
Riciclare. Recuperare tutti gli scarti non decomponibili derivanti dalle nostre attività.

lunedì 25 febbraio 2008

Fuori dai giochi.

Lo Speciale Elezioni Politiche 2008, andato in onda nella seconda serata di ieri su Raiuno, ha visto confrontarsi Fausto Bertinotti, candidato premier de La Sinistra - l'Arcobaleno, e Pierferdinando Casini, leader dell'UDC. I due esponenti politici, reciprocamente rispettosi, hanno dato vita ad un dibattito pacato, di basso profilo e a bassa voce. Un dibattito certamente chiaro, ma a tratti noioso.
Chi come il sottoscritto ha avuto la sventura di assistervi, causa impossibilità di trovar qualcosa di decente e di guardabile nella seconda serata domenicale, non ha potuto fare a meno di notare due leader in crisi, perdenti nello sguardo più che nelle proposte politiche, che pure sono interessanti e talvolta - tremo di me e per me - condivisibili.
Casini si è presentato come l'uomo di tutti i moderati: cattolici e laici, imprenditori e lavoratori, giovani e anziani. Poche le parole d'ordine: coerenza, verità, onestà, realismo. Tutte cose che, secondo il piacente leader centrista, latitano sia nella campagna elettorale di Berlusconi (accusato, con 14 anni di ritardo, di far politica per se stesso e non per l'Italia), sia in quella di Veltroni, scopiazzatore di fantasmagorici ed irrealizzabili programmi.
Bertinotti, viceversa, si è presentato come l'uomo di parte: tra impresa e lavoro, egli sceglie il lavoro; tra cattolici e laici, propende per i secondi; non vuole piacere a tutti, ma solo a coloro che si definiscono "di sinistra". Sulla vaghezza di tale definizione lascio giudicare al lettore.
L'impressione che ho avuto, nell'ascoltare Casini e Bertinotti, è stata quella di assistere al triste e decadente spettacolo di due ex attori protagonisti ridotti al ruolo di comparse. Purtroppo per loro - e per noi! - i protagonisti dell'attuale stagione politica sono Berlusconi e Veltroni, che hanno fatto il vuoto dietro ed intorno a loro. Il tentativo di polarizzare l'elettorato italiano intorno ai due grandi partiti (Ppl e Pd), favorito anche dalle lacune disastrose della stampa nazionale e dei pennivendoli di regime, sta certamente riuscendo. Il minacciato "voto utile" sta spingendo gli italiani a scegliere tra due grandi partiti, tra loro pericolosamente simili nel merito e nei metodi.
Bertinotti e Casini hanno provato a presentarsi come "novità": il primo, da riformista di sinistra quale è, ha posto il problema della democrazia non plebiscitaria e si è candidato a leader dell'opposizione sociale e "di sinistra" a qualsiasi governo uscisse vincitore dalle urne; il secondo, democristiano di destra, ha fatto capire che non necessariamente essere centristi significa essere governisti, ma si può essere centristi e stare all'opposizione.
In pratica, ambedue i leaders hanno ammesso l'impossibilità di vincere, e hanno chiesto il voto solo per rompere le uova nel paniere "veltrusconista". Il dibattito, moderato da un Riotta iperamericanizzato, ha sancito una volta per tutte - per quei pochi che ancora ci credevano, poveri illusi - la crisi profonda della politica italiana, tanto nelle sue componenti più moderate quanto nelle formazioni più radicali. Una crisi che investe valori di riferimento, prospettive future, soluzioni ai problemi del presente.
Alla politica italiana manca un'anima.

Manifesto Zero




1- NO ALLA GLOBALIZZAZIONE...
1 - Perchè la globalizzazione significa omologazione, standardizzazione, appiattimento di tutte le culture e all'interno di esse di tutti gli individui ad un unico modello. Ed è quindi contraria a quel prepotente bisogno di identità che oggi anche proprio in ragione della globalizzazione sale dalle comunità e dai singoli individui.
2 - La globalizzazione, in estrema sintesi è la competizione mondiale di tutti contro tutti. Questo comporta due conseguenze. Che se in Cina pagano la gente un piatto di riso anche da noi bisognerà fare più o meno lo stesso; Che se gli Stati Uniti non hanno welfare anche gli stati europei dovranno smantellare il loro; che se in Giappone per loro cultura samurai applicata alla fabbrica, gli viene voglia di lavorare 20 ore al giorno, anche in Italia - che nonostante tutto è un paese un pò più gradevole del Giappone- bisognerà fare lo stesso. Inoltre la globalizzazione se arricchisce le Nazioni impoverisce i suoi abitanti. Prendiamo l'Italia. L'Italia di oggi è complessivamente molto più ricca di quella degli anni 60 (il PIL non ha fatto altro che aumentare, la produzione idem, etcc.) ma noi presi come singoli individui non siamo più ricchi, se va bene manteniamo le posizione, spesso siamo più poveri. Come mai? Perchè, essendo appunto la Globalizzazione competizione, mentre noi corriamo e ci affanniamo anche gli altri paesi corrono e si affannano, per cui è come se stessimo tutti fermi. E come correre su un tapis-roulant alla rovescia. E' come nel ciclismo : se un corridore si dopa, debbono drogarsi anche tutti gli altri rovinandosi la salute. Il concetto quindi è quello di frenare, di competere di meno, in un ambito più limitato (ecco qui il riferimento alla piccole patrie e all'Europa che svilupperemo in seguito) e di ricordarci che per molte centinaia di anni il concetto che ha prevalso nell'Europa preindustriale, grazie anche alla grande influenza del pensiero di San Tommaso d'A. e della sua scuola, non è stato quello della competizione ma quello della cooperazione. Nel Medioevo europeo ad ogni uomo o meglio ad ogni famiglia, artigiana o contadina che fosse, doveva essere garantito il proprio spazio vitale, anche a scapito dell'efficienza produttiva collettiva.
3 - La globalizzazione esaspera tutti gli apetti negativi degenerativi e drammatici di quello che ho chiamato il "modello paranoico": Subordinazione dell'uomo al meccanismo produttivo, ritmi sempre più incalzanti e insostenibili, omologazione degli stili di vita e degli stessi individui in ragione delle esigenze razionalizzatrici dell'economia e della tecnologia di mercato, perdita di identità, impossibilità di trovare un punto di equilibrio e di armonia, con i loro corollari sul piano esistenziale di angoscia, nevrosi, depressione, anomia, frustrazione, sentimento di scacco esistenziale e smarrimento del senso.
4 - La globalizzazione distrugge letteralmente le realtà e le popolazioni del Terzo Mondo, costringendole ad uscire dalle economie di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo, sostanzialmente) su cui avevano vissuto e a volte prosperato per secoli e millenni, per inserirsi nel mercato mondiale dove, mentre perdono a loro volta, omologandosi, la propria identità collettiva così come l'uomo occidentale perde quella individuale, sono inevitabilmente soccombenti e da povere che erano (secondo i nostri metri quantitativi naturalmente) diventano miserabili e vengono spesso portati alla fame innescando quelle emigrazioni bibliche che tanto ci spaventano e che non sono che un pallido fantasma di ciò che ci aspetta se la mondializzazione economica continuerà imperterrita la sua marcia trionfale.Come si combatte realisticamente e politicamente la globalizzazione?La risposta la daremo quando parleremo dei concetti di autarchia, piccole Patrie ed Europa.
2- NO AL CAPITALISMO ED AL MARXISMO, DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA, L'INDUSTRIALISMO, Figli entrambi della Rivoluzione industriale, liberalismo e marxismo, nelle loro varie declinazioni, sono in realtà due facce della stessa medaglia. Sono entrambi modernisti, illuministi, progressisti, ottimisti, razionalisti, materialisti, economicisti, entrambi hanno il mito del lavoro. Sono due industrialismi convinti che scienza e tecnica produrranno una tale cornucopia di beni da rendere felici tutti gli uomini o quasi. Ed è ovvio che destra e sinistra, liberali e marxisti, concordino e siano irriducibili su questo punto fondante, che legittima l’intera modernità insieme alle sue dottrine politiche. Questa utopia bifronte ha fallito noi siamo su un treno che và ad 800 all’ora e certamente dare una più equa sistemazione dei viaggiatori sballottati dalla velocità del treno ha ancora un qualche senso ( e quindi in qualche sensi conservano le antiche categorie di ds. e sn.) ma le domande di fondo sono diventate altre.
1 – dove sta andando il treno?
2 – I viaggiatori e coloro che stanno sulla locomotiva hanno una qualche possibilità di dirigerlo o il treno è incardinato inesorabilmente si binari su cui è stato messo 2 secoli e mezzo fa.
3 – E, soprattutto, abbiamo preso il treno giusto o la missilistica locomotiva che tanto affascinò, anche giustamente, i nostri progenitori 700 e 800 ci sta portando alla catastrofe oltre a farci vivere già ora un’esistenza disumana in cui l’uomo è subordinato alle sue esigenze invece che essere il guidatore del treno ?
4 – Siamo dunque destinati a morire nella fogna del “migliore dei mondi possibili” e a crederci liberi solo perché possiamo scegliere fra diverse marche di frigorifero.Movimentozero si pone al centro di queste domande
3- NO ALLA MISTICA DEL LAVORO, DI DERIVAZIONE TANTO CAPITALISTA CHE MARXISTA Il lavoro come valore nasce con la Rivoluzione industriale ed è assunto come tale sia dai capitalisti che dai marxisti. In precedenza il lavoro non è un valore, tanto è vero che è nobile chi non lavora e artigiani e contadini lavorano solo per quanto gli basta. Il resto è vita. Manca quasi completamente nell’Europa pre-industriale il concetto di profitto, nel senso che non si è disposti a sacrificare il proprio tempo per accumulare ricchezza. Perché il vero valore è il tempo e come diceva Benjamin Franklin è “il tessuto della vita”. Quello che si propone Movimentozero è di restituire all’uomo buona parte del suo tempo perché ne faccia ciò che desidera, tempo che oggi gli è quasi totalmente sottratto dal meccanismo produzione-consumo, sia quando è nella condizione di produttore che di consumatore. Detto con uno slogan quello che ci proponiamo come linea di tendenza è: meno lavoro, più tempo. Non è una operazione utopistica e d impossibile si può sperimentare concretamente anche oggi. Si tratta di fare una inversione concettuale. Facciamo un’esempio estremo. In tutte le società sviluppate i disoccupati possono vivere, sia pur modestamente, avendo di che cibarsi di che vestirsi e di che abitare. La loro frustrazione è dovuta al fatto che non possono attingere ai beni della società opulenta. Ma se invece di nuotare contro la corrente la seguissero, se cioè invertissero psicologicamente il loro rapporto con ciò che li circonda, si accorgerebbero che hanno in gran quantità proprio quel bene prezioso del tempo che manca a tutti coloro che sono coinvolti nei ritmi frenetici del lavoro. Poter vivere senza lavorare – che, per restare all’esempio fatto, è la condizione dei disoccupati delle nostre società - è stata sempre un’aspirazione dell’uomo. Finchè ha avuto una testa per pensare. Siccome la globalizzazione porterà ad un indebolimento economico di buona parte della popolazione, mettersi in questa predisposizione d’animo è, in un certo senso, un “portarsi avanti”, cioè un’assumere come scelta quella che altrimenti sarebbe sentita come una dura e insopportabile necessità.
4- NO ALLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA La democrazia rappresentativa non è la democrazia. In quanto in virtù del sistema della delega costituisce un sistema di minoranze organizzate, di oligarchie, i partiti ed i loro apparati che opprimono l'individuo singolo, libero, che rifiuta queste appartenenze questi umilianti infeudamenti, e che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia, se esistesse davvero, e che ne diventa invece la vittima designata. I partiti che non erano contemplati nelle concezioni dei teorici della democrazia e, fin al 1920 non apparivano in nessuna costituzione liberaldemocratica, non sono, come suol dirsi, l'essenza della democrazia, ma la sua fine. Sono essi che decidono non solo i candidati ma anche gli eletti, nel sistema proporzionale facendo blocco su questo o quel nome, mentre il voto del cittadino libero, proprio perchè tale si disperde, nel maggioritario perchè gli eletti vengono direttamente calati dall'alto. Al cittadino non resta che la scelta dell'oligarchia dalla quale prteferisce essere dominato e represso. Gli stessi teorici moderni della democrazia, da Bobbio a Sartori, ammettono che si tratta in realtà di aristocrazie mascherate. Solo che rispetto delle aristocrazie storiche non hanno nè le qualità nè gli obblighi, ma solo i privilegi. L'oligarca democratico non ha alcuna qualità prepolitica. Si potrebbe anche dire che la sua solo qualità è di non averne alcuna. Ma aldilà di queste considerazioni teoriche lo vediamo e lo sentiamo tutti che noi cittadini non contiamo assolutamente nulla. E' venuta l'ora di smascherare questa finzione e, possibilmente, di abbatterla. Come dice Voltaire non esiste unicamente la tirannide di uno solo ma anche, come egli la chiama, "la tirannide dei parecchi". Noi viviamo in una "tirannide dei parecchi". E fin dai tempi più antichi (il monumento ai tirannicidi e del 480 a. C.) è considerato moralmente lecito uccidere il tiranno.
5- NO ALLE OLIGARCHIE POLITICHE ED ECONOMICHE Ormai è divenuta consuetudine associare la democrazia alla libertà, ma non è così. La democrazia rappresentativa è, in realtà, un sistema di minoranze organizzate, di oligarchie, politiche ed economiche strettamente intrecciate tra di loro e anche, eventualmente, con quelle criminali. Anche se quasi tutti i regimi sono stati oligarchici, un sistema oligarchico che si presenta sotto le forme della democrazia non è la stessa cosa di un sistema dichiaratamente aristocratico e ha pesanti conseguenze sul tessuto sociale, sul nostro modo di essere, sulla nostra vita. La classe politica democratica è formata da persone che hanno come elemento di distinzione, unicamente e tautologicamente, quello di fare politica. La loro legittimazione è tutta interna al meccanismo che le ha prodotte. L'oligarca democratico è un uomo senza qualità. La sua qualità è di non averne alcuna. In queste concentrazioni vi si ritrovano i mediocri, i deboli che però uniti avranno sempre la meglio su chi agisce individualmente e liberamente. Nel solco del pensiero liberale si realizza l'estremo paradosso, proprio da chi voleva difendere i "diritti naturali" dell'individuo, valorizzandone capacità, meriti, potenzialità, si finisce invece per mortificare proprio il singolo, l'uomo libero, colui che rifiuta appartenenze e sottomissioni, divenendo così da cittadino ideale di una democrazia la vittima designata.
6- SI ALL’AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI Alla conferenza di Helsinki del 1975 è stato firmato dalla maggioranza degli Stati del mondo un documento che sancisce il diritto di ogni popolo a separarsi da uno Stato in cui non si riconosce più. Questo diritto in realtà , mentre è stato giustamente riconosciuto a popoli come quello croato o sloveno, viene negato a tutti quegli altri che non hanno protettori potenti, dai curdi ai ceceni ai tibetani. Ora un diritto è tale se appartiene a tutti, se invece riguarda solo alcuni è soperchieria del potere, che distingue tra figli e figliastri. Noi siamo per il diritto all’autodeterminazione di tutti i popoli.
7- SI ALLE PICCOLE PATRIE Questo punto si ricollega a quello precedente. I movimenti localisti sono per definizione antitetici a quella globalizzazione che noi combattiamo perché è uno strumento di omologazione, di standardizzazione e di privazione dell’identità. Inoltre il prevalere delle piccole patrie o, se si preferisce, dei localismi permetterebbe quella democrazia diretta di cui parliamo al punto 4 e che è l’unica forma di democrazia reale dove il cittadino partecipa in prima persona alle decisioni che lo riguardano. L’espropriazione del cittadino nelle democrazie rappresentative non è mitigata dall’istituto del referendum perché in Stati troppo grandi e complessi il voto del cittadino finisce fatalmente per essere manipolato dalle oligarchie del potere.
8- SI AL RITORNO GRADUALE, LIMITATO, RAGIONATO A FORME DI AUTOPRODUZIONE E AUTOCONSUMO La sola possibilità reale di contrastare la globalizzazione è quella di bloccare il libero mercato mondiale che passa sul massacro delle popolazioni del primo e del terzo mondo. Bisogna quindi ritornare in modo graduale, limitato e ragionato a forme di autoproduzione e autoconsumo che passano necessariamente per un recupero della terra e un ridimensionamento drastico degli apparati industriali e virtuali. Ogni forma di localismo che non preveda questo ritorno si riduce a semplici aspetti folklorici ( tipo il recupero dei dialetti o il salvataggio di qualche produzione locale). Non possiamo ritrovare né un’identità né un equilibrio né un’armonia perduta se siamo tutti battezzati in un mare di Coca-Cola.
9- SI ALLA DEMOCRAZIA DIRETTA IN AMBITI LIMITATI E CONTROLLABILI Il seguente punto si lega ai precedenti, in particolare ai punti 4 e 7.
10- SI AL DIRITTO DEI POPOLI DI FILARSI DA SE’ LA PROPRIA STORIA, SENZA PENOSE SUPERVISIONI Ogni popolo ha diritto di decidere da sé il proprio destino nelle forme che più ritiene opportune e, se del caso, anche di farsi la guerra in santa pace. Se, per esempio, in Afghanistan governavano i talebani, questa era una storia afgana che, se non avesse funzionato, sarebbero stati gli stessi afgani a dover eliminare, non truppe straniere che vengono da diecimila chilometri di distanza sulla base di culture, schemi mentali, valori che nulla hanno a che vedere con la storia di quel Paese. Questo vale anche per l’Iraq e per tutti quei Paesi in cui l’Occidente, con la scusa della “cultura superiore” e “diritti umani”, è andato a ficcare il naso con la violenza, imponendo in realtà, oltre che una cultura estranea, i propri interessi materiali.
11- SI ALLA DISOBBEDIENZA CIVILE GLOBALE SE DALL’ALTO NON SI RICONOSCE PIU’ L’INTANGIBILITA’ DELLA SOVRANITA’ DEGLI STATI, ALLORA E’ UN DIRITTO DI CIASCUNO DI NON RICONOSCERSI PIU’ IN UNO STATO Con l’attacco alla Jugoslavia ed in seguito all’Iraq s’è abbattuto il principio di diritto internazionale, fino ad allora mai messo in discussione da nessuno, della non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano. Ciò è stato fatto in nome di principi etici che si dichiarano universali, ma se esistono principi etici universali superiori alla sovranità nazionale io non ho più il dovere morale di schierarmi con il mio Paese (Right or wrong, my Country) se ritengo che calpesti questi diritti. Insomma con l’abbattimento dell’intangibilità della sovranità nazionale è stato abbattuta anche l’appartenenza nazionale. E quindi noi abbiamo il diritto di schierarci con chi ci pare e piace e perciò di innescare forme di lotta non violenta contro il Paese cui formalmente apparteniamo ed eventualmente in favore di altre culture e di altre civiltà.

domenica 24 febbraio 2008

Perchè il Punto di Scontro?

Se prendi due o più ideologie, due o più religioni (confessionali o laiche, poco importa), due o più visioni del mondo contrapposte, potrai analizzarle, interpretarle, criticarle e/o condividerle solo avendo un duplice approccio. Da un lato, potrai ricercare ed evidenziare i punti di contatto, le componenti moderate delle compagini in campo, gli ideali più deboli sui quali è possibile trovare una condivisione, cancellando o ignorando le idealità più forti e scomode. Stai ricercando, diciamo così, il "Punto di Incontro" (PdI) tra le ideologie.
Dall'altro lato, però, potresti mettere su un campo di battaglia queste ideaologie, far combattere tra loro i valori ed i progetti politici più radicali e "scomodi", orchestrare una lotta intellettualmente devastante, dalle cui ceneri risorgeranno solo gli ideali più forti, duri a morire, imprescindibili, senza compromessi: avresti davanti a te, Uomo, il "Punto di Scontro" (PdS).
In Italia, in Europa e negli USA, i contendenti di una volta, le cosiddette Destre e Sinistre, hanno deciso di fare la pace. Col crollo del Muro di Berlino, con la fine dell'esperienza sovietica, il pensiero unico liberista ha avuto la strada spianata. Per almeno un decennio ha dominato ovunque, sfondando persino gli argini delle roccaforti comuniste russe e cinesi. L'Homo economico sembrava essere l'ultimo stadio di un'evoluzione nata milioni di anni fa dall'Australopitecus. E tutti, destri o sinistri che fossero, hanno messo da parte le già flebili e marce contrapposizioni, realizzando punti di incontro (PdI) praticamente ovunque nel Mondo. E ancora oggi, dopo la brevissima e purtroppo insignificante contrapposizione del cosiddetto Movimento di Seattle, i PdI tra gli avversari di un tempo proliferano a vista d'occhio:
  • in Spagna, il governo socialista di Zapatero ha realizzato riforme di facciata, che poco o nulla hanno intaccato del tessuto sociale iberico;
  • in Germania, la CDU di Angela Merkel (il cosiddetto centrodestra) ha realizzato la Grosse Koalition con l'SPD (il cosiddetto centrosinistra), a dimostrazione che le differenze politico-programmatiche tra i due schieramenti sono praticamente inesistenti;
  • in America, la campagna elettora democratica ricalca in toto le posizioni dei repubblicani più moderati, e vari spin doctors passano indifferentemente da uno schieramento all'altro senza destare alcuno scalpore;
  • in Italia, infine, dopo la caduta del Governo-fantoccio di Prodi, si stanno facendo le prove di Grande Coalizione, con i contendenti (Popolo della Libertà e Partito Democratico) che presentano programmi praticamente identici e per poco non vanno a braccetto.

Non è una follia pensare che a breve, nella nostra amata e smemorata Italia, si realizzerà un governo in cui si troveranno insieme gli ex-comunisti (Veltroni, Fassino, D'alema, Bondi, ecc...) e gli ex-fascisti (Fini, La Russa, Gasparri), gli ex-radicali (Rutelli e qualche altro) e gli ex-democristiani (Pisanu, Marini e moltissimi altri), gli atei devoti e i cattolici risposati e con amante.

Ecco a cosa può portare un Punto di Incontro. Ecco perchè, quindi, serve assolutamente un Punto di Scontro!